martedì 14 marzo 2017

Le braci di Galdar-Mesh, capp. V e VI (finale)


Raggiunsero un ampio chiostro. L’aria era satura dei vapori d’incenso che esalavano dai bracieri. Un silenzio innaturale era calato sui corridoi. Ullr depose la donna e il mercenario svenuto. Dal fodero di quest’ultimo rimosse la scimitarra, ne piegò senza sforzo la lama di acciaio e la gettò lontano.
«Molte terre io ha viaggiato», disse Jin BaoBao, quando ebbe ripreso fiato. «Ma mai prima di oggi ha incontrato grumo così maleducato.»
«Mbof», confermò Ullr, sfregandosi con la mano grossa come un badile il sudore dalla fronte.
La donna li guardava, li studiava, in silenzio.
«Tu sta bene?» le domandò Jin BaoBao.
Lei rispose con un cenno del capo.
«Molto bene. Allora noi prende venerabile teppista e toglie disturbo. Noi consiglia di stare lontano di grumo. Grazie e arrivederci.»
«Aspettate» esclamò lei. «Non potete andarvene così.»
Jin BaoBao e Ullr si scambiarono uno sguardo perplesso. «Perché no?»
«Io... ho bisogno di aiuto.»
«A questo mondo tutti bisogno di qualcosa. Poveri bisogno di soldi. Ricchi bisogno di salute. Io bisogno di cumino per zuppa di cena. Ma cumino finito. Vita amara. Arrivederci.»
«Voi non capite! La creatura che ci ha assaliti prima è... il mio sposo.»
Jin BaoBao e Ullr si scambiarono un ulteriore sguardo perplesso. «Tu moglie di grumo?»
«Sì. Cioè no. Quando ci siamo sposati non era un... grumo» la donna trasse un profondo sospiro. «Era il principe di Taif.»
«Tu dice: prima principe, poi sposato e diventato grumo?»
«Sì.»
Anche Jin BaoBao trasse un profondo sospiro. «Sempre detto io che matrimonio non fa bene di salute.»
«Non è stato il matrimonio. È stato Shakalaka DOOOM!»
«Shakalaka Doom?»
«No, Shakalaka DOOOM!»
«Va bene. Non urlare.»
«Ha stretto un patto come demoni antichi per sottomettere Nebotep.»
«Chi è Nebotep?»
«Il principe.»
«Cioè il grumo?»
«Sì. Cioè no. Insomma! Il mio nome è Neperura, moglie di Nebotep, legittimo sovrano di Taif. Shakalaka DOOOM era il ministro del tempio di Ishkibal. Sarebbe stato anche reggente al trono, fino a quando Nebotep non avesse raggiunto l’età per governare. Un brutto giorno il principe si ammalò di un morbo sconosciuto. Shakalaka DOOOM si offrì di curarlo, ma ciò che fece realmente fu sperimentare su di lui le arti blasfeme che aveva appreso dai demoni di cui da tempo era divenuto discepolo. Con la scusa del pericolo di contagio, egli tenne il principe prigioniero nelle segrete del tempio, torturandolo e cambiandolo secondo il suo gusto perverso. Quando ho scoperto la verità, sono corsa in cerca di aiuto. Ma nessuno in città vuole darmi ascolto, hanno troppa paura della magia di Shakalaka DOOOM. Anche i soldati obbediscono a ogni suo ordine. Quando hanno scoperto dove mi nascondevo, sono fuggita nel deserto. Lì ho trovato quell’uomo e il suo compare; dovevano aiutarmi a liberare il mio sposo, ma...» La giovane represse un singhiozzo. «Non oso immaginare cosa possa avergli fatto Shakalaka DOOOM per ridurlo a ciò che è ora.»
«Non male questa frittella di pancetta e noce moscata». Presso uno dei bracieri, Jin BaoBao abbrustoliva due sfoglie di riso direttamente sui tizzoni. «Ma ci vuole più pepe. Molto più pepe di così». E continuava a speziare le frittelle spargendo grani macinati ovunque, fino a svuotare la pepaiola.
«Ma mi state ascoltando!?»
«Io prepara colazione, notte movimentata mette appetito. Tu vuole un po’?»
«Dovete aiutarmi!» disse la giovane, all’apice dell’esasperazione. «Shakalaka DOOOM è un uomo spietato. E pericoloso. La sua ambizione non si placherà con la città di Taif. Deve essere fermato.»
«Venerabile moglie di grumo», disse Jin BaoBao. «Temo che fra noi c’è malinteso. Noi molto dispiaciuti per tuo marito grumo e tuo visir briccone. Ma noi venuti qui solo per pagamento di danni alla locanda.»
«Locanda? Che locanda?»
«Locanda di mio amico Ullr. Piccolo locale, ma di buona birra e cucina ottima (infatti cuoco è io)». Jin BaoBao fece un cerimonioso gesto di modestia. «Durante stagione di cavolo rosso, venerabili teppisti viene a locanda di Ullr a mangiare di grasso e bere di forte. Più forte loro beve, più forte loro parla; così disturba altro cliente gentile che chiede di fare un po’ più piano per favore. Allora venerabili teppisti rompe sedia su schiena di cliente gentile. Tu sa come va questa cosa. Presto tutti rompe cose su tutti altri, fino a che non c’è più nulla di piccola locanda di Ullr. Quando rissa finisce, teppisti spariti. Allora noi fa elenco di cose rotte e parte per viaggio di cercare venerabili teppisti. Questo era di sedici lune fa.»
«Insomma è una questione di soldi». Neperura estrasse dalle pieghe della veste un rubino grosso come un’albicocca matura. «Prendete, è vostro. L’intero tesoro di Taif sarà vostro, se mi aiuterete a fermare Shakalaka DOOOM.»
Jin BaoBao fece un inchino affettato. «Molto grazie, ma non è tu che ha rotto cose di locanda. Noi non può accettare.»
«Avete paura?»
«Un po’ anche quello, sì.»
«Vi prego!» Neperura si inginocchiò davanti ai due uomini, premette la fronte contro il pavimento gelido del cortile. «Shakalaka DOOOM mi ha portato via tutto quello che avevo. Ha rubato il mio trono, ha trasformato il mio sposo in un mostro, tiene in pugno l’intera popolazione. Non esiterà a uccidere ogni uomo, donna e bambino di Taif per nutrire il suo potere. E quando avrà consumato tutta la città, partirà per sottomettere un nuovo regno.»
Jin BaoBao e Ullr si scambiarono un ultimo sguardo perplesso. «Tu cosa pensa, Ullr?»
«Mbof.»
«Quello che pensava anche io». Jin BaoBao sorrise e si inchinò. «Molta fortuna per vostro popolo, venerabile moglie di grumo. Piacere di avere conosciuto. Andiamo, Ullr.»
«Altolà, imbecille!»
Non Neperura, ma una voce di uomo aveva impartito il comando. Bastò il suono di quelle parole perché Ullr si immobilizzasse con una sollecitudine sorprendente, persino innaturale. Dalla penombra del corridoio era emersa una figura ammantata di porpora e oro, il cui capo era cinto da un diadema di onice adornato dall’effige di un marabù ad ali spiegate.
«Che succede, Ullr? Tu non sta bene?»
Ullr non rispose. Guardava fisso in avanti, i muscoli contratti, paralizzato nella suggestione di un movimento.
«Il vostro amico non farà una mossa fino a che non sarò io a volerlo», disse l’uomo col diadema, beffardo. «Oggi ho già fatto un buon pasto, ma rimane ancora un poco di spazio per il dessert. Vediamo, da chi potrei cominciare... Forse da quello grosso e succulento? O dal piccoletto con i baffi? Oppure», le pupille vitree guizzarono nel cavo dell’orbita, roteando come occhi di lucertola. «Oppure potrei cominciare dalla principessa». Nella voce dello stregone risuonò una nota di scherno. «So che avete già incontrato vostro fratello. Mi auguro che l’affetto fra di voi non sia stato mutato dal suo nuovo... aspetto.»
La rabbia e l’odio nello sguardo che Neperura restituì al ministro traditore erano decuplicati dalla consapevolezza della propria impotenza.
«Fratello?» s’intromise Jin BaoBao. «Non aveva detto marito?»
«Mai detto marito», disse la giovane. «Sempre fratello.»
«Io è sicuro di avere sentito marito.»
L’uomo del nord si mosse. Non di molto, invero: tutto ciò che gli riuscì fu serrare un pugno, tentare l’inizio di un passo.
«Ho detto fermo tu!»
Lo stregone Shakalaka DOOOM avanzò verso il centro del cortile, il braccio levato in un gesto mistico di comando. Il passo di Ullr dovette interrompersi, il pugno si congelò a mezz’aria. Un tremito attraversò la muscolatura del collo, la folta peluria del volto gemmava di sudore.
«Sembra che magia si sta indebolendo», disse Jin BaoBao, con una specie di cordialità. «Io conosce questo genere di ricetta. Tu sbaglia tutto. Tu prende anima di sofferente. Anima di sofferente stopposa, poco nutriente. Tu deve prendere anima felice se tu vuole gustare aroma pieno e memorabile. Come maiale con fungo nero e bambù. Se maiale morto triste, rovina tutto sapore.»
Shakalaka DOOOM tacque, e per un momento il suo silenzio parve nascondere un dubbio, forse persino un turbamento. Ma presto proruppe in una risata infernale: «Che importa! L’anima dei mortali non è che alimento per Colui che Eternamente Vive. Il popolo di Taif esiste per nutrire gli appetiti insaziabili di Galdar-Mesh. Quando avrà compiuto il suo destino, non dovrò fare altro che spostarmi nella prossima città... o nel prossimo impero? Presto sarò abbastanza potente da possedere tutte le anime di cui ho bisogno, e nutrire la potenza di Galdar-Mesh che attraverso me si manifesta – per sempre.»
Mentre lo stregone parlava in questo modo, Huzziya riprendeva i sensi. Non ricordava da dove venisse il sangue raggrumato sul suo labbro, e gli parve di sentirsi il naso più piatto del solito: ma l’imminenza del pericolo lo riportò presto al presente. Cercò la scimitarra al proprio fianco, e sbalordì quando la ritrovò piegata dall’altra parte del chiostro. Ciò lo dissuase definitivamente dal proposito di ingaggiar battaglia. Invece, approfittando del fatto che nessuno si curava di lui, cominciò pian piano a strisciare in direzione del corridoio.
«Dove pensi di andare tu?»
La voce di Shakalaka DOOOM corse come veleno nelle vene del mercenario. Trovandosi scoperto, Huzziya balzò in piedi e si precipitò verso l’uscita.
Non vide così la sua stessa scimitarra sollevarsi da terra e raddrizzarsi, come per opera di poderose mani invisibili, né la udì sfrecciare a mezz’aria in risposta a un breve gesto dell’incantatore; ma riconobbe il colore del sangue gocciolare dalla lama che gli attraversò il petto un attimo dopo. L’ultima espressione che ebbero i suoi occhi prima di spegnersi fu di sincera meraviglia.
Shakalaka DOOOM levò le palme al cielo. «Nessuna anima va sprecata!» proclamò. La sua voce cambiò in una cantilena atona, che richiamava potenze immonde dagli abissi più remoti dello spazio e del tempo.
Shaä nāqba kmûru ïna qereb lïbbï āliïm...
Il corpo che era stato di Huzziya annerì e si contorse come pergamena sulla fiamma; un vapore evanescente si levò dalla gola e dal vuoto delle orbite. Ravvivarono le braci nei bracieri, eccitate da un vento innaturale, e l’odore di incensi e carne bruciata crebbe in intensità, e spirali di nebbia si mischiarono ai vapori che erano l’anima dell’avventuriero. Quando la nenia cessò, Shakalaka DOOOM si preparò ad accogliere l’essenza vitale della sua ultima vittima nelle proprie narici.
Non aveva risucchiato che un piccolo batuffolo vaporoso quando un colpo di tosse lo costrinse a prendere una pausa.
Poi un altro.
E un altro.
Più si sforzava di aspirare, più i singulti gli squassavano il petto – e starnuti, sempre più frequenti, sempre più forti.
«Chi è sta—CUOOOGH!» tossì. «Chi diavolo ha messo del... COFF COFF... pepe nei miei bracie—e—eee—ETCIUUUM!»
«Venerabile usurpatore vuole scusare il suo indegno servitore; io voleva solo insaporire un po’ la focaccia di spuntino. Ecco, ora io aiuta a pulire faccia con pomata che fa passare bruciore.»
«AAAAAAAAH I MIEI OCCHI.»
«Ops, quest’uomo senza talenti chiede perdono. Era salsa di rafano piccante.»
«IL DOLORE È INSOPPORTABILEEEEEH!»
«Venerabile usurpatore vede che tutto passa se respira questi sali corroboranti.»
«STAI LONTANO DA MEEEEEEEEH!»
«Ah no, era essenza di peperoncino soffio di drago. Molto gustoso ma molto forte, sì.»
In qualche modo Shakalaka DOOOM raggiunse la vasca davanti all’altare; a mani piene raccolse il sangue sul fondo e lo usò per sciacquarsi la faccia. Quando si rialzò, il suo volto era una maschera di odio e cruore: «Ora pagherete per il vostro affroNGH—»
Lentamente, molto lentamente, Ullr aveva lottato contro il nodo psichico che lo tratteneva fino a spezzarlo, e lentamente, molto lentamente, le sue nocche nodose avevano raggiunto lo zigomo di Shakalaka DOOOM. L’impatto aveva impresso al collo dello stregone una rotazione di cento e ottanta gradi, o comunque abbastanza da polverizzare le vertebre superiori. Il corpo di Shakalaka DOOOM fu sollevato dal suolo e piroettò fino all’imboccatura del medesimo corridoio da cui era poc’anzi emerso. Ullr, di nuovo padrone dei propri movimenti, si sgranchì le spalle, preparandosi a rincarare la dose. Ma lo stregone aveva già cessato di muoversi.
«Tu è diventato lento, vecchio mio», disse Jin BaoBao. «Ai vecchi tempi tu picchiava venerabile usurpatore molto tempo fa.»
«Mbof», ammise Ullr, mentre aiutava Neperura a rialzarsi. Il viso della giovane era contratto in una smorfia sbigottita, che attendeva solo di distendersi in un sorriso di sollievo. A lungo ringraziò i due stranieri, promettendo onori infiniti e generose ricompense. Quando tornò a rivolgersi al corpo di Shakalaka DOOOM, tuttavia, il sollievo si tramutò in orrore.
Lo stregone si era rialzato. Come il falegname incastra la testa del manichino, così egli raddrizzava il proprio capo sulle spalle. Gli occhi di vetro si dischiusero, le labbra si contrassero in un ghigno beffardo. «Stolti! Ci vuole altro per sottomettere la potenza di Colui che Eternamente Vive». Shakalaka DOOOM fece un gesto di minaccia; istintivamente Neperura tentò di ripararsi con un braccio, salvo scoprire che il suo corpo non le obbediva. Con la coda dell’occhio cercò gli stranieri, e il sangue le gelò nelle vene appena capì che essi pure erano paralizzati dalla magia di Shakalaka DOOOM. Quando si rivolse di nuovo a Shakalaka DOOOM, ciò che vide la lasciò completamente sconvolta.
«Come dicevo poc’anzi, ora pagherete per la vostra insolenza», disse con calma lo stregone. E per l’ultima volta l’aria si riempì della cantilena infernale:
Shaä nāqba kmûru inAGHA—!
Non era stata la resurrezione di Shakalaka DOOOM a sconvolgere la regina Neperura; o non solo. Dall’oscurità del corridoio era emerso un tentacolo, presto seguito dal corpo immondo delle bestia strisciante. Lo stregone ebbe appena il tempo di pronunciare un’esclamazione sacrilega, forse il principio di un nuovo sortilegio, prima che un’appendice abominevole lo avviluppasse per i fianchi. Poi un fluido putrescente gli colmò la gola, ed egli stesso sprofondò nella pozza di informe carne gorgogliante che era il corpo della creatura del caos. L’orrido banchetto produsse sulla creatura un effetto sconcertante. Come se una lotta micidiale avesse luogo all’interno del suo corpo, la bestia emise un suono lacerante, dilatandosi e comprimendosi in modo sempre più inarticolato. Un boato salì dal suolo, come se al lamento dell’essere immondo avesse risposto il grido primordiale che era la rabbia di Galdar-Mesh, il dio deforme e insaziabile che eternamente divora il proprio fegato nelle viscere della terra. Caddero blocchi di pietra e marmo; caddero le colonne. Insieme alla magia di Shakalaka DOOOM collassava il tempio intero, mentre il ciclo furioso della mutazioni del caos senza nome non accennava a placarsi.
«Io suggerisce che noi toglie disturbo», disse Jin BaoBao, quando fu di nuovo padrone dei propri movimenti.
«Mbof», approvò Ullr.
«Ma non possiamo lasciarlo qui», protestò Neperura. «È mio fratello!»
«Se moglie grumo vuole rimanere, noi non insiste. Arrivederci.»
Con un rapido inchino Jin BaoBao balzò oltre una breccia nel muro. Ullr lo seguì, ma prima di sparire nell’ombra rivolse un’ultima esortazione alla principessa, che fissava con disperazione il corpo mutevole della bestia, creato dal potere di un demonio immortale, e che di un demonio dalle fattezze umane tentava ora di nutrirsi. Volti innumerevoli galleggiavano sulla massa di caos furibondo; fra questi uno indugiò più a lungo. Un viso giovane e bello, segnato da un’infinita malinconia. Non una richiesta di aiuto fu ciò che la principessa trovò nell’ultimo sguardo che il giovane le rivolse, prima di essere nuovamente inghiottito, ma un addio.
Neperura volse le spalle e corse oltre la breccia.

6.

Il grasso gocciolava copioso dal trancio sulla griglia. L’aria si riempì dell’odore di carne rosolata, che si mescolava a un aroma pungente ed esotico.
«Frittella con pancetta, noce moscata e pepe nero. Nuova ricetta, gustosa e delicata.»
Jin BaoBao servì la frittella su un piatto di legno, guarnito con bacche di mirto e foglie di salvia impanate, mentre Ullr spillava da una botte un generoso boccale di cervogia bruna.
«Mbof», spiegò.
L’avventore al bancone svuotò in un attimo piatto e boccale.
«Fenomenale», disse, con la bocca ancora piena e i baffi umidi di schiuma. «Il vostro chiosco è il migliore di tutta Hellgard. Tornerò spesso.»
«Vostro servitore senza talenti è indegno di tanta stima, ma felice di rivedere ancora voi. Porta tanti amici e buona vita.»
L’avventore lasciò una lauta mancia e se ne andò in un tripudio di festose flatulenze. Ullr ritirò piatto e boccale e li sciacquò in un tino di acqua torbida.
«Aprire chiosco di frittelle in capitale è stata grande idea, amico mio», disse Jin BaoBao, scolando il grasso liquefatto dalla griglia. «Se continua così, noi presto può riaprire piccola locanda. Poi grande locanda. Poi catena di locande. Io ha grandi progetti.»
«Mbof.»
«Sì, meglio non correre troppo. Bisogna stare attenti a cliente che facciamo entrare. Noi non vuole altra rissa». Jin BaoBao si arrotolò un baffo sottile, mentre il sole concludeva la sua parabola oltre i colli occidentali. «Noi dovrebbe mandare piccolo regalo a venerabile moglie di grumo. Quando perso rimborso di teppisti, lei stata molto gentile a finanziare nuovo chiosco. Insistito tanto che dovuto accettare. Ora che lei è regina di Taif, tutto va bene. Non pensi anche tu, Ullr?»
«Mbof.»
«In effetti, anche io ha stessa sensazione. Come di avere dimenticato cosa molto importante. Ma proprio non riesce a ricordare cosa.»
«Scusate», disse una voce. «Mi hanno detto che fate una buona offerta su birra e frittelle». Un uomo con un cappuccio sdrucito e il mantello tutto una toppa si era seduto al banco del chiosco; sul viso cresceva una barbetta ispida e rada.
«Voi dice bene», rispose Jin BaoBao, cordiale. «Noi offre sgabello e tu paga buona birra e frittelle.»
L’uomo sorrise e mise sul banco una moneta; presto il grasso ricominciò a colare, la birra a spillare, e fu la fine di un’altra buona giornata nella città di Hellgard. Intanto, a molte miglia di distanza, una rivoltante massa di carne amorfa, divenuta ciclopica per le innumerevoli creature assimilate, strisciava sulle sabbie del deserto e lentamente, molto lentamente, si avvicinava.


FINE (per ora)

martedì 7 marzo 2017

Le braci di Galdar-Mesh, cap. IV


La maschera d’oro attraversò a volo il cielo notturno. Il soldato si rialzò con fatica, sputacchiando sangue e denti sul ciottolato.
«Venerabili mezze calzette, se voi risponde a nostra domanda noi toglie subito il disturbo.»
La voce dell’uomo del Qtai risuonò cordiale nel cortile del tempio di Ishkibal. Al suo fianco avanzava il disturbo: l’uomo del nord, o delle caverne, quello insomma che si stava rimuovendo dal palmo della mano gli incisivi dell’ultima guardia pestata, o forse di quella prima. Sebbene le cicatrici della sua fronte si confondessero nel numero delle rughe, il braccio conservava una potenza primitiva. Se fra i suoi antenati non contava polifanti, quantomeno doveva essere avvezzo a cibarsene.
Il tramestio dei sandali e il clangore del ferro annunciarono l’arrivo dei rinforzi. Una squadra di dodici uomini uscì di corsa dalle porte del tempio, si allargò su due ali ai fianchi degli intrusi e si richiuse alle loro spalle, serrandoli in un cerchio letale di lance e scudi.
«Noi ha molto dispiacere che voi prende cose in questa maniera qua.»
Le punte di metallo si avvicinarono agli intrusi; qualcuno intimò la resa. Con una sveltezza inaspettata da un individuo tanto massiccio, l’uomo del nord acchiappò l’estremità di una lancia. Il soldato che la impugnava tentò di ingaggiare un confronto di forza, nel quale si scoprì sconfitto quando i suoi piedi si staccarono dal terreno. L’intruso mulinò lancia e lanciere con violenza inaudita: volarono maschere d’oro, poi volarono anche i rispettivi proprietari. Non era trascorso il tempo di sette respiri e il cortile era disseminato di corpi di lancieri tumefatti. Uno solo riuscì a fuggire all’interno del tempio, abbandonando sul campo più denti di quanti non gliene rimanessero in bocca.
«Chiufete! Prefto!»
 Sei uomini robusti azionarono la ruota che controllava il meccanismo dell’ingresso. La pesante porta di ferro che nei secoli aveva difeso da predoni ed eserciti il tempio di Ishkibal sigillò la soglia prima che i due intrusi potessero varcarla. Non era stata una bella figura, quella del corpo di guardia; ma se non altro ora i difensori del tempio avrebbero potuto riorganizzarsi prima che...
Il soldato senza denti non riuscì a completare il pensiero perché la pesante porta di ferro che nei secoli aveva difeso da predoni ed eserciti il tempio di Ishkibal gli cadde addosso schiacciandolo al suolo. Seguì il rumore croccante di ossa che si sbriciolano, mentre l’uomo del nord entrava passeggiando sopra al portone divelto.
«Ullr, non fare maleducato.»
Sull’uscio, Jin BaoBao si cavava i mocassini. Non senza un sospiro di insofferenza, Ullr si sistemò in un angolo e levò a sua volta gli stivali. Nella stanza si diffuse un lezzo di morte e putrefazione.
Gli uomini dalle maschere d’oro che non avevano ancora perso i sensi si diedero alla fuga, lasciando i due intrusi soli nella camera d’ingresso del tempio di Ishkibal, ad ascoltare il suono dei passi concitati che si allontanavano nel corridoio – presto seguito dal suono dei passi concitati che si avvicinavano dal corridoio.
Gli uomini dalle maschere d’oro rientrarono dallo stesso varco da cui erano usciti, corsero incontro agli intrusi, li superarono e schizzarono nel cortile del tempio ululando come bestie impazzite.
Mentre Ullr e Jin BaoBao cercavano una spiegazione per quell’insolito comportamento, dallo stesso corridoio sbucarono altre tre figure: una donna e due uomini (senza maschere d’oro). La donna era molto bella e molto spaventata. Dei due uomini, uno era alto e brutto, l’altro solo brutto. Quando Jin BaoBao li vide, il suo viso si illuminò.
«Venerabili teppisti! Lungamente noi vi ha cercato.»
Se uno dei fuggitivi riconobbe Jin BaoBao, non lo diede a vedere. La donna e l’uomo chiamato Huzziya, tuttavia, si fermarono. L’altro, l’avventuriero noto come Telepinu, continuò nella sua corsa disperata fino a che non rimbalzò contro l’ostacolo che gli sbarrava l’uscita, vale a dire la pancia sconfinata di Ullr. Dietro la massa lanuginosa della barba rubizza un attento osservatore avrebbe potuto indovinare la linea di un sorriso.
«Ora che vi ha trovato, noi presenta conto», disse Jin BaoBao.
L’ombra di un ricordo passò sulla fronte di Huzziya. Ma prima che il mercenario potesse aprir bocca, la donna gridò: «Fuggite! Non sapete cosa sta per arrivare!»
«L’Orrore! L’Orrore!» le fece eco Telepinu. E lacrimava, e strepitava, e si aggrappava alla gamba pachidermica di Ullr, e Ullr cominciava a irritarsi.
Jin BaoBao inforcò un paio di occhialetti rotondi e dispiegò davanti a sé un lungo rotolo di pergamena.
«Scalone con corrimano: centoventi monete d’oro. Tre tavoli di legno massello ben lavorato: trentasette monete d’oro (cadauno). Statua di antico imperatore di giada Xing Xiaoping: tre monete di rame (era falso)...»
«Levatevi dai piedi», ringhiò Huzziya, scimitarra alla mano.
«Vaso di pesciolino testa-dorata: due monete d’oro. Pesciolino testa-dorata: duecento monete d’oro (io era molto affezionato)...»
«Sta arrivando! La morte che striscia!» Folle di paura, Telepinu si aggrappò all’odoroso piede di Ullr, come il naufrago che si afferra al relitto nella tempesta. Sotto la lanuginosa massa di barba rubizza il sorriso di Ullr era definitivamente mutato in smorfia di fastidio. Con severa brutalità l’uomo del nord scalciò via il supplice; il supplice rotolò malamente dall’altra parte della stanza; tutti ammutolirono.
Non fu il capitombolo di Telepinu a imporre il silenzio, ma l’apparizione alle sue spalle della cosa.
Nessun uomo avrebbe potuto darle un nome, poiché non c’era nulla in essa che potesse apparire familiare all’occhio umano. Non aveva forma né colore, ma incessantemente ribolliva senza mai riuscire a trattenere un aspetto definito. Era un cumulo insensato di corruzione e blasfemia, un ammasso di bolle ed escrescenze schiumose, che scoppiavano e si rigeneravano senza ordine o ragione. La cosa era sbucata dall’oscurità del corridoio, o forse l’aveva trascinata con sé: e adesso quell’oscurità piombava famelica sull’ignaro Telepinu. A questi non restò tempo per un gesto né per un fiato. La creatura cadde su di lui come un’onda di fango, ed egli ne fu sommerso.
«Molto scortese divorare venerabile debitore.»
L’orrido pasto non bastò a placare la creatura. Fremendo e contorcendosi, essa scivolò sul pavimento, dritta verso la fanciulla. Dall’ammasso gorgogliante affiorò un volto umano, orribilmente trasfigurato in un grido di agonia. Con orrore la donna riconobbe i lineamenti che erano stati di Telepinu; allora le gambe cessarono di sorreggerla, e l’infelice si accasciò alla mercé dell’incubo vivente. Huzziya colse l’occasione per battere i tacchi e sfrecciare verso l’uscita.
Non l’uscita, ma il fondo di una padella di ghisa trovò Huzziya; e lo trovò con tutta la faccia, sicché non gli restò altro che accasciarsi a sua volta, in silenzio. Jin BaoBao rinfoderò le padella, che aveva brandito con l’eleganza e la precisione del maestro.
«Molto scortese anche defilarsi senza pagare debiti.»
Nulla di tutto questo vide la fanciulla; le sue pupille erano prigioniere dello sguardo senza palpebre che era appartenuto a Telepinu. Una voce che non aveva più nulla di umano risalì da innominabili profondità infernali: “a-iu-to... a-iu-ta-mi...”. Poi la faccia affondò nell’ammasso.
Non di propria iniziativa affondò, ma come inevitabile conseguenza dell’incontro con le nocche spigolose di Ullr. L’uomo del nord si frappose fra la donna e la creatura, mentre dalle carni mostruose emergeva una seconda faccia, quella di un soldato, che una ulteriore manata non meno energica della primo si sbrigò a ricacciare nell’abisso di follia e oscurità. Ma già un terzo volto si preparava a emergere.
I baffi rubicondi fremettero, i pugni crocchiarono, mentre l’uomo del nord si predisponeva al prossimo pugno.
«No!»
Con la forza della disperazione la donna si aggrappò al braccio di Ullr. Fu la sorpresa, più che la disponibilità a obbedire, ciò che lo spinse a trattenere il colpo. Negli occhi della fanciulla non c’era paura, o non solo: essi esprimevano un’angoscia sgomenta, dolorosa, che somigliava alla pietà. Era stata l’apparizione di quell’ultimo viso a suscitarla? Era un viso diverso dagli altri, fanciullesco, incomparabilmente triste, quasi timoroso. Dall’ammasso strisciante di demenza e iniquità emersero dita – una mano – un braccio proteso verso la giovane. Ella sollevò la mano a propria volta. L’espressione del giovinetto si raddolcì. Le sue labbra pronunciarono una parola, forse un nome.
Infine celebrarono l’incontro poc’anzi rimandato con il pugno di Ullr, anche più energico del solito. Mentre il viso si ritraeva nell’ammasso, l’uomo del nord raccolse la giovane come si raccoglie un rotolo di coperte e se la caricò in spalla. L’oscurità fremette in gran tumulto; lembi di carne simili a tentacoli guizzarono in tutte le direzioni. Poi l’orrore compì un balzo formidabile verso il soffitto, per un istante rimase appollaiato come un ragno, infine piombò sopra alla porta di ferro, in preda a una furia cieca e irrefrenabile.
«Forse meglio se noi discute debito da altra parte.»
Ignorando le proteste della fanciulla, Ullr agguantò anche il corpo privo di sensi di Huzziya, e insieme a Jin BaoBao fuggì a gambe levate per il corridoio, verso il cuore del tempio.

martedì 28 febbraio 2017

Le braci di Galdar-Mesh, cap. III




3.

La donna si muoveva con disinvoltura nel buio dei corridoi. Mancava ai suoi passi la leggerezza guardinga di chi è abituato ad aggirarsi senza invito per le abitazioni altrui; tuttavia, se pure si trattava con ogni evidenza di una dilettante, aveva studiato con scrupolo il percorso. Evitava i luoghi sorvegliati, e anticipava le mosse delle guardie, come ne conoscesse già la abitudini. Sceglieva spesso itinerari tortuosi, mai senza ragione. Ben poco le restava in comune con la fanciulla braccata che i mercenari avevano incontrato nel deserto. Alla penombra delle lampade i suoi occhi scintillavano di impazienza; i movimenti suggerivano una fermezza non priva di grazia, che avrebbe persino potuto incutere soggezione nei due che la accompagnavano, se costoro non avessero avuto la mente occupata da altri pensieri.
«Non mi piace questo posto, Huzziya.»
Huzziya, il colosso, non replicò; ma una smorfia di disgusto rivelò che nemmeno lui apprezzava l’odore di cui erano impregnate le pareti del tempio. Un odore penetrante, nauseabondo, di incenso e balsami esotici e qualcosa d’altro, che ricordava la carne bruciata. Eppure più forte del disgusto era stata la promessa dell’oro e dei preziosi che, a sentire la fanciulla, si trovavano in abbondanza nei sotterranei del tempio. Arrivato a quel punto, un uomo come Huzziya non se ne sarebbe andato senza prima essersi riempito le tasche, o almeno...
La giovane si bloccò senza preavviso. Girò sui tacchi e fece ampi cenni agli accompagnatori di togliersi di mezzo. I due uomini seppero presto la ragione.
Passi nel corridoio. Un uomo saliva dal fondo di una scalinata. Li aveva visti? Se avesse continuato ad avvicinarsi avrebbe finito per vederli presto. I tre intrusi si appiattirono nell’ombra. Mani furtive scoprirono l’elsa delle scimitarre. Tutti e tre sapevano che le lame avrebbero dovuto guizzare con rapidità e precisione, per raggiungere la gola dell’uomo prima che un grido d’allarme potesse lasciarla.
I secondi passavano e la guardia non veniva. Giunse invece un suono di passi più numerosi, e il tramestio di voci concitate. La distanza era troppo grande per distinguere un discorso, ma fra le altre riecheggiò nel corridoio la parola ‘intrusi’. Huzziya gonfiò il petto, come aveva già fatto nel deserto, prima di affrontare la schiera dei cavalieri dalle maschere d’oro.
«Preparati, Telepinu.»
Già da un pezzo Telepinu si preparava allo scontro; anzi, si può dire che una parte di lui lo bramasse. Non temeva il numero delle guardie, ma qualcosa di sconosciuto, incomprensibile, che aveva percepito fin da quando aveva fatto il primo passo nel tempio; l’odore che gli incensi si sforzavano di coprire. A ogni minuto del tesoro gli importava sempre meno. Piuttosto sperava che le guardie li trovassero, che dessero l’allarme, perché allora a lui e Huzziya non sarebbe rimasto che fuggire. Ma invece di avvicinarsi, passi e voci si allontanarono; presto nel corridoio non ne rimase che un’eco lontana. La giovane uscì dalle ombre, si accertò che la via fosse sgombra, fece cenno ai compagni di seguirla. Huzziya controllò il corridoio due o tre volte prima di obbedire. Con un sospiro Telepinu rinfoderò la scimitarra.
Raggiunsero presto un terrazzo coperto, che affacciava su un ampio chiostro semicircolare. Nel chiostro si trovava un gruppo di soldati dalle maschere d’oro: trattenevano uno straccione macilento che tremava e piangeva davanti a una vasca di pietra. Di là dalla vasca, dal pulpito dell’altare, incombeva una figura di porpora e nero. Fu quest’ultima a catturare l’attenzione di Telepinu.
La luce dei candelabri rifletteva il pallore innaturale di un viso ossuto, incoronato da un diadema di onice su cui svettava l’effige di un marabù ad ali spiegate. Le mani erano nascoste dalle lunghe maniche della veste, che si ricongiungevano davanti al petto, come in un atto di attesa o preghiera. Un fumo sottile saliva dai bracieri agli angoli dell’altare. L’odore di incenso e carne bruciata era sempre più forte.
Prima che Telepinu potesse interrogare la donna, l’uomo col diadema levò le braccia al cielo. Dita scheletriche si dischiusero, e lo spazio del cortile fu colmato da parole di una lingua sconosciuta; una nenia dissonante innalzata alle primordiali costellazioni che sfregiano il cielo notturno. Un soldato afferrò il prigioniero per i capelli e passò sulla gola scoperta la lama di un pugnale. Il sangue schizzò dalla ferita; gocce cremisi imbrattarono i gradini dell’altare; un flusso copioso scivolò sulla pietra della vasca. La cantilena salì di tono. Accadde allora un che di bizzarro e terrificante.
Sotto lo sguardo attonito degli intrusi nascosti, esili strisce vaporose esalarono dagli occhi e dalla bocca del prigioniero, contratta in un grido privo di suono. I vapori si mischiarono al fumo degli incensi, formando una bruma variopinta sopra l’uomo col diadema. Man mano che il canto aumentava di volume, la bruma ingrossava, mentre la carne del prigioniero si consumava come un tizzone nel focolare.
Shaä nāqba kmûru ïna qereb lïbbï āliïm... 
Il canto si interruppe bruscamente. L’uomo col diadema gettò il capo all’indietro. Voluttuosamente aspirò dalle narici la bruma che aleggiava su di lui. Quando il prigioniero cadde, il poco che restava del suo scheletro annerito si sgretolò all’impatto col suolo.
«L’uomo che ha stretto un patto proibito con dei antichi e crudeli per usurpare il trono di Taif», sussurrò la fanciulla, rispondendo a una domanda che nessuno aveva posto.
«Il suo nome è Shakalaka DOOOM!»
«Shakalaka... Doom?» ripeté Huzziya, perplesso.
«No, Shakalaka DOOOM!»
«D’accordo, non c’è bisogno che urli.»
«Non mi interessa come si chiama», disse Telepinu. «Per quanto mi riguarda, ho visto abbastanza.»
«Il vostro oro è vicino», replicò la fanciulla.
Telepinu la ignorò. Per tutta la notte si era sforzato di tenere a bada l’istinto che lo implorava di girarsi, correre, fuggire, porre la maggiore distanza possibile fra sé e quel tempio di dannati. Per un lungo momento fu tentato di esaudire quella richiesta. Fu allora che riconobbe il bagliore negli occhi di Huzziya, e seppe che ogni insistenza sarebbe stata inutile. Poteva solo scegliere se continuare a seguire lui e la donna nella ricerca del tesoro, o tentare di aprirsi la strada verso l’uscita, da solo.
Si morse il labbro. In effetti, non era davvero una scelta.
Procedettero per anditi segreti. La sorveglianza sembrava adesso meno serrata, come se la notizia degli intrusi l’avesse diradata anziché fortificarla. Telepinu si domandò se non avesse inteso male le parole delle guardie nel corridoio. O forse si trattava di una trappola? Era immerso in ragionamenti di tal sorta quando si accorse di avere passato la soglia di un grande salone sotterraneo. A stento trattenne un grido, poi che un’ombra ciclopica si stagliò su di lui.
«Trattenete la lama», disse la donna. «Il dio-guerriero Ishkibal era il guardiano di Taif, prima che il culto blasfemo di Shakalaka DOOOM lo esiliasse nei sotterranei. Non vi farà alcun male. Almeno, non in questa forma.»
Con un borbottio di stizza Telepinu rinfoderò la scimitarra, estratta prima di comprendere che l’ombra non apparteneva a un ciclope, ma a una statua. La sua evidente apprensione suscitò un sogghigno in tralice sulle labbra di Huzziya; ma anche la mano del colosso si era avvicinata all’elsa.
«Pare che il guardiano di Taif sia stato retrocesso a guardiano dei vicoli ciechi». Huzziya indicò la solida parete di mattoni al di là della statua.
«La fede in Ishkibal apre vie sconosciute ai profani», replicò la donna. Premette una protuberanza nel corpo della statua, e di là dalla parete si udì lo scatto di un ingranaggio, seguito dallo scorrere di cavi e carrucole. Una porzione di muro in fondo al salone scivolò verso il basso, rivelando i primi gradini di un’angusta scalinata che sprofondava nel buio.
La fanciulla staccò una torcia dalla parete. «Siamo quasi arrivati», disse, con la trepidazione che prelude all’esultanza. Per la prima volta da quando avevano fatto ingresso nel tempio, Telepinu provò una sensazione simile al sollievo. La quale, rapidamente come era giunta, si dissipò. Anche l’espressione della giovane era subito cambiata in una smorfia nervosa, quasi apprensiva. Un che di anomalo dimorava in quella scalinata. Come se l’oscurità fosse un oggetto solido, concreto; un corpo che la luce della torcia non riusciva a penetrare.
Qualcosa raggiunse le orecchie di Telepinu. Un suono viscido e ponderoso. Il respiro disarticolato di cose che non appartengono a questo mondo. La giovane pronunciò un nome, una nota di terrore le incrinò la voce. Allora l’oscurità si mosse.

martedì 21 febbraio 2017

Le braci di Galdar-Mesh, capp. I e II

Orme di stivali sul manto ardente del deserto. Due file parallele, che tracciavano una scia leggera, regolare, simile a una cicatrice sopra un volto immane di sabbia. Una coppia di figure in grigio scivolava a testa bassa fra le dune. Di rado si scambiavano uno sguardo, mai una parola. Il ritmo della loro avanzata non mutò nemmeno quando videro la fanciulla accorrere da Sud e gettarsi senza fiato ai loro piedi.
«Dovete aiutarmi.»
Aveva labbra secche e tumide, come quelle di chi da troppo tempo non assaggia il sapore dell’acqua, e guance sudice di polvere e pianto. La voce era spezzata dalla disperazione; ma anche nella supplica batteva un accento di comando. La fanciulla si aggrappò al ginocchio del più vicino dei due uomini, come il martire al palo del supplizio.
Se l’uomo cui il ginocchio apparteneva – dovremmo dire: il colosso, poiché avrebbe superato di tutta la testa il più alto dei guerrieri di Ur – se l’uomo avesse esaminato con attenzione gli occhi che lo imploravano, avrebbe riconosciuto, dietro la maschera di angoscia, quella specie di bellezza altera per cui sono note le donne kirzaniane. Ma il suo sguardo era altrove, all’orizzonte, dal quale ora si alzava una nube di sabbia, e sotto la nube una schiera di cavalieri, a dorso di cammello, sulle cui maschere d’oro battevano i dardi di un sole famelico.
«Non vogliamo guai.»
A parlare era stato l’altro uomo, il cui aspetto segaligno mal si accordava con il suono greve della voce. Non aveva l'aria del guerriero. Nondimeno, la donna dovette notare il baluginio dell’acciaio sotto il grigio del mantello. Frettolosamente rovistò fra le pieghe della propria veste per estrarre una pietra rutilante, ben squadrata, piena come un’albicocca matura. Il più severo dei gioiellieri di Valdonia non avrebbe esitato a definirla un rubino di taglio eccezionale.
Negli occhi dei due uomini passò quel bagliore che presso ogni popolo esprime l’avidità del cuore. Poi il colosso tornò al drappello, che avvicinandosi si faceva sempre più largo e fitto. «Non basta», disse.
«Ce ne sono altri da dove vengo», insistette la giovane. «Molti altri, in confronto ai quali questo è poco più che un ciottolo per i giochi dei fanciulli.»
E continuò a supplicare con racconti e promesse, e si chinò, e premette la fronte nella sabbia incandescente, mentre gli uomini tacevano, e il vento del Sud portava le grida dei cavalieri. Vicine, sempre più vicine.
I due stranieri in grigio scoprirono i mantelli e abbassarono la mano all’elsa delle scimitarre.

2.
Le dita gelide della notte si distendevano sui tetti e le vie di Taif. In un tempo non ancora lontano la città-stato di Taif era sorta come un giardino nel mezzo del deserto di K’besh; oasi rigogliosa per le carovane dei mercanti, che la ricercavano per acquistare rifornimenti e ristoro, e malvolentieri se la lasciavano alle spalle. Tuttavia, da quando il principe era caduto in malattia, e il gran visir aveva raccolto lo scettro del comando, un velo di decadenza soffocava la città. Correva voce che antichi dèi blasfemi avessero sussurrato all’orecchio dell’usurpatore leggi nuove, inumane, di cui nessuno conosceva i dettami fino a quando non scopriva di averli violati. Allora venivano i soldati dalle maschere d’oro, e trascinavano lo sventurato nel tempio di Ishkibal, da cui nessuno tornava.
Da molti mesi gli abitanti della città vivevano rinchiusi nelle abitazioni, ed esitavano persino ad affacciarsi alle finestre, per timore di incorrere nell’ira del visir. Giorno dopo giorno la città invecchiava e imputridiva. Gli alberi di palma, che in passato avevano dato frutti turgidi di nettare, avvizzivano sulle sponde di uno stagno torbido e molle. Sulla superficie limacciosa dell’acqua solo mosche e zanzare prosperavano, ingrassando una colonia di rospi, la cui pelle vischiosa gemmava di vesciche e bubboni purulenti. Qualche derelitto senza meta né speranza si aggirava talvolta per edifici abbandonati, che nessuno più avrebbe potuto chiamare case, in cerca di una crosta non ancora rosicchiata dai topi.
«Venerabile derelitto, può noi chiedere piccola informazione?»
Il derelitto sollevò la fronte: per un momento fu come se la luna gli sorridesse. Era un sorriso incorniciato di sottili baffi neri, con una treccia di barba ispida che scendeva come un ruscello fino all’ombelico, e il sorriso non apparteneva alla luna, bensì a un uomo del Qtai. Cosa ci facesse un uomo del Qtai in mezzo al deserto di K’besh, era una domanda alla quale il derelitto non seppe rispondere.
«Mio nome è Jin BaoBao. Tu perdona se noi disturba, ma mio buon amico Ullr e io fatta molta strada per cercare due signori che viene di lontano. Loro portano scimitarre come guerrieri di Ur, ma non è guerrieri di Ur. Tu ha visto loro qui?»
Per un lungo momento il derelitto fissò lo straniero chiamato Jin BaoBao come avrebbe fissato uno spettro infernale. Poi ribaltò gli occhi e disse: «QUESTA È LA CITTÀ MALEDETTA DI TAIF.»
«Va bene ma tu ha visto uomini di cui io parla?»
«CHI ENTRA A TAIF NON NE ESCE MAI PIÙ.»
«Guarda, loro è fatti così.»
E Jin BaoBao srotolò davanti al derelitto una pergamena, sulla quale erano ritratti due volti dai lineamenti vagamente umani. Il derelitto si interruppe. Osservò i ritratti con un misto di incredulità e sbigottimento.
«SEMBRANO DISEGNATI DA UN CANE.»
Qualcosa si mosse alle spalle di Jin BaoBao. Una figura corpulenta, estesa in larghezza più che in altezza, si stagliò sul derelitto, eclissando la luna e le stelle. Non fosse stato per la foltissima barba, rossa come vino forte, oltreché per la postura bipede, avrebbe potuto scambiarsi per un ippopotamo.
«Pace e serenità, Ullr. Venerabile derelitto non voleva insultare tua tecnica di disegno.»
L’ippopotamo, vale a dire l’individuo chiamato Ullr, emise un suono stizzito che poteva suonare così: «Mbof». Ma arretrò di due passi, e la luna tornò a splendere sul derelitto; il quale rimase zitto, immobile, stranito, come in contemplazione del vuoto fra gli astri.
«Insomma, ha tu visto signori o no? Noi non ha tempo da perdere.»
Il derelitto taceva. Solo quando Jin BaoBao gli passò una mano davanti agli occhi capì che l’uomo era svenuto dal terrore.

Le dita gelide della notte continuavano a distendersi sui tetti e le vie di Taif. Ombre fameliche strisciavano per i muri di una vecchia torre. Fra le fessure della pietra s’intuiva lo scalpicciare delle piccole creature dai molti piedi che dimorano sotto la sabbia. Talvolta un disgraziato senza senno né rifugio si appisolava ai piedi di un informe blocco di diorite, che in un passato ormai perduto aveva ritenuto l’aspetto di una statua.
«Venerabile disgraziato, può noi chiedere piccola informazione?»
Un occhio sonnolento si dischiuse. Passò dall’uno all’altro dei visitatori, tremando indugiò sul più lontano dei due. Avrebbe potuto scambiarlo per un grasso tricheco, che avendo scotennato un tartaleone si era cinto della sua criniera. Peccato che l’occhio dell’infelice non avesse mai conosciuto un tartaleone, né tantomeno un tricheco.
«Tu non ha paura, venerabile disgraziato. Io e mio amico Ullr non vuole fare del male.»
«QUESTA È LA CITTÀ MALEDETTA DI TAIF.»
«Anche tuo collega prima ha detto così.»
«CHI ENTRA A TAIF NON NE ESCE MAI PIÙ.»
«Noi sa già tutto, grazie. Ora però noi cerca due signori che viene di lontano. Uno molto alto e molto brutto. Altro solo molto brutto. Guarda, somiglia a questi due.»
«SEMBRANO DISEGNATI DA UN MONCO.»
Il tricheco dalla criniera di tartaleone, vale a dire Ullr, grugnì un grugnito di disappunto, che poteva suonare così: «Mbof». Jin BaoBao si affrettò a trattenerlo, ma il disgraziato, fattosi all’istante cinereo, era già appassito come un crisantemo ai piedi del suo blocco di diorite.
«Così non va bene, Ullr», sospirò l’uomo del Qtai. «Meglio se noi prova in altra maniera.»

Le dita gelide della notte persistevano nel distendersi sui tetti e le vie di Taif. Presso lo scheletro di una fontana in rovina, uno straccione senza pace né criterio tentava di placare l’arsura piluccando l’umidità delle muffe che crescevano fra i mattoni – quando una mano dalla forza ursina lo afferrò per la collottola e lo sollevò di tre o quattro spanne da terra.
«Scusa venerabile straccione della città maledetta di Taif da cui chi entra non esce mai più, ha tu visto di recente questi due signori che sembra disegnati da cane monco?»
Lo straccione non seppe nulla del viso dell’uomo che gli poneva le domande o di quello del proprietario del braccio dalla forza ursina. Ne vide in compenso altri due, non belli, sul rotolo di pergamena svolto davanti al suo naso. E in qualche modo dovette riconoscerli, o forse reputò prudente fingere di averli riconosciuti, perché puntò il dito verso il fondo della strada e disse: «Sono andati di là!»
«Molto grazie venerabile straccione», rispose la voce di prima, con un marcato accento del Qtai. Un attimo dopo lo straccione ricadeva sui ciottoli davanti alla fontana. Quando sollevò lo sguardo, gli parve di scorgere due ombre assai diverse per stazza e andatura, ma in qualche modo somiglianti l’una all’altra, che fianco a fianco si incamminavano verso il grande tempio in fondo alla strada.

mercoledì 7 settembre 2016

Tomo II - Stolti Mortali!


Il Grande Saggio della Montagna è stato sconfitto. Intanto il Prigioniero della Torre ha rivelato la sua identità e, con essa, la terribile minaccia che incombe su Agaland. Ma anziché unire le forze, i regni degli uomini si apprestano a scatenare l'ennesima guerra fratricida. Così gli Eroi Epici - con trent'anni in più sul groppone, i capelli radi e la panza floscia - devono accontentarsi dell'alleanza con il bislacco popolo degli gnomi, mentre il Signore Oscuro insiste per radunare le armate delle tenebre, a partire dai suoi vecchi amici orchi. Intanto, l'esercito dei demoni delle stelle avanza attraverso Agaland, lasciando al suo passaggio qualcosa peggio del fuoco e delle rovine... 

Riusciranno gli Eroi della Leggenda a fermare la minaccia che viene dalle stelle? 
O sono destinati a soccombere come miserabili?
Chi è il signore coi baffi e la spada di legno in copertina? 
Questo libro vale i soldi che costa? 

Nelle pagine all'interno troverete le risposte a queste domande, a molto altro ancora: Avventura! Mistero! Tradimento! Duelli! Trielli! Battaglie campali! Pirati! Draghi (forse)! Il terribile Alligatòro! L'Innominabile Orrore che Viene dalle Stelle!

"Stolti Mortali!" in eBook (2,99€)

"Stolti Mortali!" in edizione cartacea (attorno ai 20€)

mercoledì 18 marzo 2015

CLASSIC BADASS: Gli stati e gli imperi della Luna




Italia, secolo XVII. Un villaggetto di campagna viene svegliato nel cuore della notte dall'ululato feroce dei cani. Gli abitanti accorrono da tutte le parti. Da dove viene, che sarà mai. Le volpi. Un orso. I lanzichenecchi.

Non proprio: è un naso alquanto grosso, attaccato a uno straniero dall’aria spaesata. Che subito alza le mani. “Boni oh state boni.” Parla con un marcato accento francese, indica i cani. “Dispiace per il casino, devo averli mandati in bestia io, mi sa che puzzo ancora un po’ di luna, sapete com’è, sono appena tornato.”
In effetti lo straniero sembra proprio un lunatico – magari non nel senso che dice lui. Eppure...

Eppure si tratta del famigerato Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac, ex-moschettiere e guascone ad honorem oltreché filosofo, drammaturgo, poeta.

Per capire cosa ci faccia in Italia e perché tutti quei cani ce l’abbiano con lui, bisogna fare un passo indietro.


"Cristiano il bello lo faccio io."

La storia di Cyrano è nota. Nasce a Parigi nel 1619 e già da marmocchio mette in luce quelli che diventeranno i suoi tratti fondamentali: la spavalderia, la vena poetica e “un naso alquanto grande”. A diciannove anni entra nei moschettieri del re. È l’unico non-guascone in una compagnia di veterani D’Artagnan: ma dopo averlo visto combattere i compagni gli assegnano subito il patentino ‘uno di noi’ e lo nominano Demon de la Bravoure
Per Cyrano, del resto, le occasioni di misurarsi in battaglia non mancano – un po’ la gente lo percula volentieri per via del naso, un po’ lui è uno che non le manda a dire.

La carriera militare sembra spalancata ma nel 1640, durante un assedio, per poco non ci rimane con la gola aperta. Si congeda quindi dai moschettieri per dedicarsi interamente alla drammaturgia, concedendosi giusto qualche pausa per dilapidare la fortuna ereditata dal padre.


"Vi farò grazia di una morte squisita."

Nello periodo in cui il cardinale Mazzarino si becca sulla capoccia la grana della Fronda, con mezza cittadinanza in armi e Parigi sotto assedio, l’imperturbabile Cyrano porta a termine il suo primo romanzo: Gli stati e gli imperi della Luna – una bomba di fantascienza ante-litteram, a metà via fra Sentry di Fredric Brown e la Storia Vera di Luciano (ne abbiamo parlato qui). 

Tutto inizia da una serata alcolica con quattro amici. Sulla via del paninaro a qualcuno parte la sbronza poetica: si finisce a parlare proprio della luna. Quant’è bella, quant’è cara. Ma secondo te com’è fatta veramente. Ah per me dev’essere il sole che ci sbircia da un buco nel cielo. Secondo me invece è lo stenditoio di Artemide. 

- No ragazzi non ci siamo. Guardate che loro sono come noi.
- ‘zzo stai a dì, Cyrano.
- Forse per noi la Luna è la luna, ma per loro la luna è la Terra. Capite?
- MA LORO CHI.
- Cioè tu davvero pensi che siamo soli in questo popò di universo?
- Mi sa che ne hai presa troppa, Cyrano.



Punto nell’orgoglio, Cyrano decide che l’unico modo di dimostrare la propria tesi è raccogliere prove sul territorio. Pronti via, si va sulla luna.

Sì ok, ma come?

Metodo n.1: La mongolfiera de noartri – Cyrano si sveglia presto al mattino per raccogliere la rugiada, riempie una caterva di ampolle poi esce al sole e aspetta che la rugiada evaporando lo spinga verso l’alto.
Geniale, eh?


Contrariamente a tutte le aspettative e a tutte le leggi della fisica, il piano funziona fin troppo bene. Tanto che l’aspirante uomo-dirigibile deve sbarazzarsi di qualche bottiglia per ridiscendere in... Canada. Arrestato, rimpatriato, tutto da rifare.
Ma Cyrano è uno tenace e non si dà per vinto, tanto che nel giro di qualche giorno ha pronto un nuovo infallibile piano.

Metodo n.2: La pomata magnetica della nonna – secondo una vecchia credenza popolare, la luna calante risucchierebbe il midollo degli animali (dafaq?). Cyrano si spalma ben bene di midollo di bue e si libra nel cielo come un palloncino di elio (ignorando le bestemmie di Isacco Newton a terra).
Quello che non ha calcolato è che arrivato a metà strada la gravità si inverte. Invece che salire e delicatamente posarsi sulla superficie del satellite, Cyrano precipita come un sacco di patate senza paracadute e si spiaccica su un albero lunare.




Cyrano si tasta per verificare i danni.
La testa c’è.
Le gambe ci sono.
Le chiappe pure.
Nemmeno una costola rotta, miracolo.

Non è un modo di dire. Cyrano è infatti piovuto nel Giardino dell’Eden dritto sull’Albero della Vita, che non solo ripristina la barra degli HP ma lo ringiovanisce pure di quattordici anni.
Sano e sbarbato, comincia a guardarsi in giro. Dopo un lungo vagabondare nel più bucolico dei deserti, si imbatte in un vecchio barbuto. È il profeta Elia, ammesso al cielo per volontà del Signore. Il quale tuttavia non si è preoccupato di fornirgli nemmeno una scala a pioli, sicché il vecchio profeta ha dovuto ingegnarsi da sé. Come? Ma naturalmente grazie al mitico...

...Metodo n.3: Il magnete di Paperoga – equipaggiamento: una potente calamita e una carretta di ferro.
Istruzioni: a) salire sulla carretta, b) lanciare in alto la calamita, c) aspettare che la carretta salga verso la calamita, d) riprendere nonché e) rilanciare la calamita, f) proseguire così fino alla luna.

Appurata la comune simpatia per le leggi delle fisica, Cyrano ed Elia proseguono discorrendo amabilmente di faccende teologiche. 

Cinque minuti dopo Cyrano viene scortato dalla sicurezza fuori dal Giardino dell’Eden.



Ma santi e profeti non sono gli unici abitanti della luna. Ci sono anche degli strani umanoidi quadrupedi che trovano lo straniero, lo catturano e lo portano dal magistrato.

- Che cosa sarebbe, questo?
- Sembra un uomo.
- Ma va là, non vedi che è bipede.
- Sì fa un po’ schifo.
- Però che bel naso.
- Per me è una bestia esotica.
- Sei sicuro?
- La regina ne ha un esemplare uguale, un maschio.
- Allora questo dev’essere la femmina.

Senza tanti complimenti il prigioniero viene condotto al palazzo della regina, dove incontra ‘l’esemplare maschio’. Cyrano non crede ai propri occhi.

- Ma va là un altro essere umano.
- Ma va là pensavo di essere l’unico.
- Sono arrivato ieri, ma come ci sei arrivato qui.
- Mi ha trasportato uno stormo di uccelli.
- Geniale. Io ho usato il vecchio trucco della pomata di bove.
- Mirabile. Pensa che questi mi credono una scimmia.
- Io invece sarei una femmina di scimmia.
- Ah siamo a posto.

Arrivano i custodi delle scimmie. 

- Cosa stanno dicendo?
- Credono che vogliano farci accoppiare.

 


Lo vogliono e lo possono. Mentre Cyrano passa un brutto quarto d’ora, noi approfittiamone per qualche notazione culturale sul popolo dei seleniti, secondo ciò che l’autore osserva nell’opera.

I seleniti parlano con la musica, i loro nomi si scrivono con le note su un pentagramma e usano come valuta i versi poetici: una sestina per una cena all’osteria, un sonetto per otto giorni di baldoria, e “se c’è qualcuno che muore di fame, è solo perché è un asino, mentre le persone di spirito hanno sempre la pancia piena”.

La sera prima di coricarsi leggono... gli audiolibri: “Libri per i quali gli occhi sono inutili e le orecchie indispensabili”. Si tratta di scatole piene di meccanismi tipo orologio che si possono portare in giro a mo’ di walkman. Per leggere basta girare l’ago al capitolo che interessa et voilà! Ecco diffondersi “suoni come dalla bocca di un uomo o da uno strumento musicale.” 

Fra i seleniti inoltre il naso grande è un segno di bellezza e tutti ce l’hanno enorme, tanto che si nutrono di odori. Anche da loro peraltro esiste una specie perversa di pseudo-fruttariani: gente che si nutre (o meglio, odora) solo cose morte da sole, per paura che il troppo snosare possa recar loro dolore.

Infine, i vecchi devono rispettare i giovani e non viceversa: "Avreste certo pena a credere che Ercole, Achille, Epaminonda, Alessandro e Cesare, che son quasi tutti morti prima dei quarant'anni [come ahinoi accadrà al buon Cyrano, n.d.r.], siano da disdegnare e che un vecchio rimbambito, nel quale il sole ha maturato il raccolto novanta volte, sia da incensare”.

"'Vecchio' a CHI?"

Coerentemente, un criminale è condannato a “morire di morte naturale e nel suo letto, e inoltre ad essere seppellito dopo morto”. Nulla di più umiliante che sparire sottoterra divorati dai vermi. La gente per bene si fa cremare, così la sua forza vitale risale alle stelle. Oppure quando decide di averne abbastanza dà una grande festa e si fa divorare dagli amici, che poi si accoppiano alla libertina: così se nasce un pargolo sanno che è il loro amico che si è reincarnato.

Quanto a Cyrano, durante la sua ‘gravidanza’ ha modo di imparare la lingua dei seleniti. Inevitabile che i filosofi locali comincino a speculare. Sarà dotato di ragione oppure no? È veramente una scimmia? O forse un pappagallo? O magari uno struzzo?

- No ragazzi non ci siamo. Guardate che noi siamo come voi.
- ‘zzo stai a dì, scimmia.
- Forse per voi la Luna è la terra, ma per noi la Terra è la terra. Capite?
- MA NOI CHI.
- Cioè tu davvero pensi che siete soli in questo popò di universo?





A differenza dei suoi amici beoni, i seleniti la prendono sul personale e trascinano Cyrano davanti al tribunale dell’Inquisizione lunare. Se il poveretto evita il peggio lo deve solo grazie all’intervento del suo protettore, un tipo solare – nel vero senso della parola, in quanto viene effettivamente dal sole – che in passato si era già impiegato come demone personale di Socrate.

E a Gli stati e gli imperi del Sole avrebbe dovuto essere dedicato il secondo romanzo di Cyrano – o meglio un secondo viaggio nel fantastico e un ulteriore bonario cricco sulle palle dei fautori dell’antropocentrismo ottuso, geocentrico, anti-galileiano. L’atteso sequel, ahinoi, rimase però incompiuto anche a causa della precoce dipartita dell’autore.

Cyrano muore nel 1655, a trentasei anni, forse in seguito a un colpo alla testa. Le circostanze particolari sono avvolte nel mistero, e fra i suoi innumerevoli nemici molti tentarono di attribuirsi la gloria del colpo fatale. 

Ma la gloria autentica appartiene solo a lui, a Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac. Soddisfazioni letterarie non ha avute in vita quante meritava – non ha nemmeno fatto in tempo a vedere pubblicato il romanzo lunare – e certo il suo cuore non ha sopportato meno pene di nessun altro. Nondimeno, la storia di quei suoi nemici è caduta nell’oblio – il suo nome è leggenda.



"Sai dirmi in che maniera? Andar sotto padrone? Cercarmi un protettore? E come oscura edera che ha l'albero tutore, e s'appoggia arrampicandosi e leccandogli la scorza, potrei salir da furbo, e non invece a forza? No, grazie. Dedicare in ogni scartafaccio dei versi ai finanzieri? Mutarsi in un pagliaccio, sperando di vedere, sul labbro di un ministro, lo spasmo di un sorriso un po' men che sinistro? No, grazie. Banchettare ogni giorno da un pidocchio? Avere il ventre logoro dalle marce, e il ginocchio più prestamente sporco nel punto in cui si flette? Rendermi primatista in dorso-piroette? No, grazie. Riconoscere talento ai dozzinali? Plasmarsi su ogni critica che appare sui giornali? E vivere sognando: "Oh, sento già il mio stile percorrere le bozze del Mercurio mensile"? No, grazie! Fare calcoli? Tremare? Arrovellarsi? Preferire una visita a un paio di versi sparsi? Stendere delle suppliche? O farsi commendare? No, grazie. No, grazie! No, grazie!!
Ma cantare, sognare, ridere. Splendido. Da solo, in libertà. Aver l'occhio sicuro, la voce in chiarità. Mettersi se ti va di sghimbescio il cappello, per un sì, per un no, fare un'ode o fare un duello. Fantasticare, a caccia non di gloria o di fortuna, su un viaggio a cui si pensa, sulla luna! Se poi viene il trionfo, ebbene fatti suoi, ma mai, mai diventare un "come tu mi vuoi". E se pur quercia o tiglio davvero non si è… se vuoi proprio non alto, ma farcela da sé."




Fonte:
Cyrano de Bergerac, L’altro mondo, ovvero Gli stati e gli imperi della Luna, a cura di Vitiello P. (1984, Liguori Editore: Napoli)



giovedì 5 marzo 2015

CLASSIC BADASS: Baldus




M’è venuta la fantasia più che fantastica
Di cantare con le Muse ciccione la storia di Baldo.
Per la sua fama altisonante e il nome gagliardo
La terra trema e il Baratro
Si caga addosso dalla paura.

No, non abbiamo esagerato con il grog.

O forse sì, ma non è questo il punto.

Il punto è che i versi di cui sopra sono stati vergati nel 1517 dalla mano di un monaco benedettino (!) venticinquenne, di nome Teofilo Folengo, o se preferite Merlin Coccaio, oppure Limerno Pitocco.

Il suo nome di battesimo comunque era Girolamo.

Il fatto che non siano in molti a parlare di Teo Folengo non deve stupire. Fra i pochi a ricordarsi di lui troviamo Rabelais, Erasmo da Rotterdam e Giordano Bruno (be’, scusate se è poco). Sappiamo che si è girato i monasteri di mezza Italia, che aveva un debole per la bella vita e il gentil sesso, che somigliava in modo inquietante alla buon'anima di Margherita Hack, ma soprattutto che se ai suoi tempi fosse uscito D&D sarebbe stato un eccezionale dungeon master.


"Non me somiglia pe niente."

Possiamo facilmente immaginare lo scapestrato Teo nella sua cella monastica, mentre nasconde sotto la Bibbia la sua copia del Morgante di Gigi Pulci. Non c’è dubbio che il suo personaggio preferito sia quel pazzo criminale di Margutte. L’unico rammarico è che il Pulci lo faccia durare così poco.

O forse no.

In un impeto di fanboy-rage Teo decide di donare a Margutte una seconda vita, cucendogli addosso uno dei personaggi più bastardi di tutti i tempi – il briccone Cingar – co-protagonista di uno dei capolavori dimenticati del rinascimento: il Baldus.

Scopiazzatura?
Blasfemia?
Epic fail?

Nel 99,999998% dei casi diremmo di sì. Ma il nostro Teo è nato per l’eccezione.




C’è Atlantide, c’è Troia, c’è la Terra Santa, c’è Mordor, e per ultima, ma non meno importante, c’è Cipada in provincia di Mantova.

Alto medioevo. Una coppia di pellegrini bussa alla porta di Berto Panada, una buon’anima di contadino che non esita ad accoglierli e sfamarli. Grati per l’accoglienza, i pellegrini rivelano la loro identità: sono ser Guido di Francia e la principessa Baldovina, in fuga d’amore.

Berto, cuore tenero, nota che la principessa è in stato interessante, sicché offre ai due innamorati la sua ospitalità. Ser Guido accetta per metà: lascia la moglie alle cure del buon contadino, mentre lui parte per la Terra Santa in cerca di un regno da conquistare.

Il tempo passa, Baldovina partorisce un bel bimbo che chiamerà Baldus. Baldus è l’emblema della salute. Viene al mondo ridendo, brandisce bastoni come spade, canne come lance, ancora in tenera età impara a leggere (e subito diventa fan dei poemi epici), a sei anni ne dimostra dodici. È bello, forte, intelligente da fare schifo.

Va da sé che tutti gli altri bambini del paese lo odiano a morte. Un bel giorno si coalizzano e tentano di suonargliele.



La rissa fra marmocchi degenera, Baldus non si tiene, ci scappano morti e feriti. Alla fine devono intervenire le guardie che dopo una lotta estenuante riescono ad arrestare il ragazzetto scatenato.

L’adolescenza di Baldus sarà tutta così. Furfante, scavezzacollo, spesso sfrontato, sempre gagliardo, diventa ben presto il capo di una gang giovanile, che sarà anche il suo party per il resto della campagn... pardon, opera:

Il gigante Fracasso, il quale “con due dita sradica una quercia secolare, con la stessa facilità con cui i contadini sradicano i porri”.

Il canuomo Falchetto, che “aveva forma di uomo fino al culo, di lì in poi, fino alla coda, aveva forma di cane”.

E soprattutto lui, il preferito delle mamme – Cingar: “scampaforca, farabutto, ladro, sempre pronto alle beffe, mala guida per il viandante: a chi gli domandava la strada giusta per il viaggio, indicava quella sbagliata.” Ogni volta che finisce sulla forca arriva sempre Baldo a salvarlo; non lascia frutti nei frutteti, non verze negli orti, non galline nei pollai.



Quando Baldus verrà rinchiuso in una segreta a seguito di un complotto del fratellastro Zambello, sarà Cingar a trarlo d’impiccio. E a vendicarlo, naturalmente.

La vendetta di Cingar rappresenta uno degli apici del delirio coprolalico di Teo Folengo e merita un discorso a parte.

Tutto comincia con Zambello che un bel giorno decide di manifestare la sua disistima per Berta, moglie di Baldus, prendendo l’abitudine di lasciarle ogni mattina un ricordino marrone fumante davanti all’uscio di casa. Cingar fiuta il colpevole e subito ordisce un contro-inganno. Raccoglie i corpi del reato in un vaso, li ricopre di uno spesso strato di miele e li porta al mercato. Qui aspetta Zambello al varco, ringraziandolo per il prezioso regalo che ogni mattina lascia davanti alla casa della gentildonna.



Zambello ci appare scettico:

Mi faresti buttar via ben in fretta le mutande
Se credessi che tu puoi vender quel che io caco.

“Non ci credi?”, risponde Cingar. “Te lo dimostro subito.”
Entra in una drogheria e domanda: “SALVE LE INTERESSA QUESTA MERDA di api”.

‘Di api’ lo dice piano, e nel brusio della folla Zambello non sente.

Lo speziale puccia il dito nel miele, lo pilucca ben bene, affare fatto. Cingar gli lascia tutto il vaso.
Zambello è senza parole. Il giorno dopo torna dal mercante tutto bucolico, con un bel catino fumante: “MERDA, MERDA BUONA! MERDA CACATA FRESCA!”

Lo speziale, intanto, ha scoperto l’inganno.



Dopo un’evasione in grande stile dalle segrete di Mantova, Baldus e Cingar insieme a una ciurma di nuovi compagni s’imbarcano per la Turchia. Affrontano tempeste devastanti, pirati sanguinari, l’isola-balena di Pandraga...

Ok, qua forse conviene rallentare un attimo.

L’isola-balena della strega meretrice Pandraga è a tutti gli effetti una balena, che a suo tempo la fattucchiera ha incantato per farla stare ferma, mentre uno stuolo di demoni la caricava di terreno, alberi, fiumi e montagne.
A lungo Pandraga è sfuggita alla Protezione Animali, ma quando arriva Baldus scatta inevitabile la battaglia senza quartiere.

La strega scatena la potenza di tutti i demoni e di un terribile Moloch. Il fragilotto Cingar si trova a mal partito e per poco non ci lascia le penne. Riesce a salvarsi solo perché tira un diciotto.

No, non è una metafora. Sono le parole di Teo Folengo: “...Allora tirò Cingar un diciotto.

"O dovevo tirare il d20?"

Lo scontro infuria e i diavoli prendono una quantità tale di mazzate da richiamare Lucifero stesso, che in groppa alla sua mula sale dalle profondità dell'Abisso per dare un’occhiata al campo di battaglia, prima di essere ricacciato pure lui a colpi di crocifisso.

Il viaggio prosegue in una grotta oscura abitata da un drago. È buio pesto, e per evitare di prendersi a sberle fra loro i nostri eroi decidono di lasciare lo scontro ai cavalli, calorosamente incitati alla battaglia.

I cavalli se la cavano benone: il drago è sistemato, si prosegue. Dalle profondità della grotta appare Merlino – non il mago di Artù, ma il dungeon mast... ehm, l’autore in persona: Merlin Coccaio. Egli rivela a Baldus e i suoi che è loro compito scendere nell’Inferno e sconfiggere il male. Nulla di meno, nulla di più.

Dopo essersi riforniti dell’opportuno equipaggiamento leggendario (le armi di Ettore, Achille e Orlando, l’elmo di Nembrod e il battacchio +5 di Morgante) (ottomila chili di battacchio, apprendiamo), i nostri si avventurano fino alle sorgenti del Nilo, maltrattano il vecchio dio del fiume, si rifocillano di vipere marce e drago arrosto all’osteria dell’Inferno, infine raggiungono le rive dell’Acheronte.

Qua trovano una folla di anime in attesa di essere trasportate sull’altra riva. C’è traffico, si formano code, guardi c’ero prima io, ma lei lo ha preso il ticket, oh ma che è sta puzza di ascella, dove diavolo si è cacciato il traghettatore.
In effetti Caronte non c’è: è andato a prendere l’ennesimo due di picche dalla Furia Tisifone, di cui è follemente innamorato.



La puzza dilaga, il gigante Fracasso si stizzisce. Supera l’Acheronte con un balzo, afferra Caronte per la collottola e lo scaraventa sull’altra riva, mandandogli dietro la barca con un calcio.

Passato il fiume, i nostri sprofondano nella casa della Fantasia: “piena di un rumore silenzioso o di un tacito strepito, di un moto immobile, di un ordine disordinato, di una norma senza regola e arte.

In questo delirio psichedelico di massime epicuree, dialettica tomistica e sogni di Alberto Magno, Baldus viene avvicinato da uno strano giullare, che lo conduce fino a una zucca grande come una montagna, dimora di poeti, cantori, astrologi... e barbieri stipendiati da Plutone, esperti nell’arte di cavare i denti ai cantastorie – uno per ogni bugia. E più denti sono strappati, più ne ricrescono.

E qui, con una mossa di poetica crudeltà, o forse con la pigrizia specifica del dungeon master, Teo Folengo si ferma.

La Zucca è la mia patria, occorre che qui io perda i denti,
Tanti quante le menzogne che ho messo nel libro immenso.
Baldo, ti saluto. Ti lascio finalmente all’opera di un altro...



L’edizione definitiva del Baldus uscirà a metà degli anni ’30 del Cinquecento. Venticinque canti in latino maccheronico, una lingua che Teo Folengo studia e padroneggia con la stessa dedizione che Tolkien riserva al Sindarin.

Dopo una vita passata alternativamente fra monasteri e gozzoviglia, Teo morirà nel 1547, non ancora cinquantenne, in sospetto di eresia.

Nel 1596 papa Clemente VIII inserirà il Baldus nell’indice dei libri proibiti.

Poco male: noi possiamo giurare di averne vista una copia sul comodino di Crom.

Perdonate se abbiamo riempito di tale e tanta roba le orecchie:
del resto è meglio riempirne l’orecchio piuttosto che la bocca.
State bene!





Fonte:
Teofilo Folengo, Baldus, a cura di Chiesa M. (2006, UTET: Torino)